mercoledì 15 settembre 2010

FANTASMI


Prende la metro a non so quale fermata della linea verde.
Non l’ho mai visto salire, mai incontrato sulla banchina.
Me lo ritrovo davanti quasi ogni giorno.
Ad un certo punto appare.
Alzo lo sguardo da un libro o dal cellulare e lo vedo.
Ha sempre lo stesso sguardo concentrato, all’inizio mi sembrava cupo, ma mi sbagliavo.
Dopo un po’ di tempo che lo conosco, se così si può dire, sento che non è un uomo triste. Non ci ho mai parlato ma è così, lo sento.
Credo piuttosto che sia assorto in qualche pensiero che lo porta lontano.
Ha un trench avana che arriva fino a sotto le ginocchia, da ispettore del ‘900 e porta sempre almeno un paio di libri sottobraccio.
Non sono mai riuscito a leggerne i titoli ma le copertine cambiano quasi ogni giorno.
A meno che non sia un esibizionista culturale è uno che legge molto.
Non ce lo vedo a sistemare la sua libreria in funzione dell’ ospite che arriverà ma conosco gente che lo fa o lo faceva.
Non sono il solo a guardarlo.
Spesso mi accorgo che le donne intorno a lui mandano sguardi da dietro il giornale, di striscio, facendo finta di leggere la mappa della metro. L’ho visto fare a cinquantenni con tronchi al posto delle gambe e a donne trentenni nel pieno della loro bellezza. Lui ricambia i loro sguardi con brevi cenni del capo, sorrisi appena accennati, qualche volta al massimo con un’alzata di testa.
Non è un uomo bello.
A parte le banalità sul gusto, mi sembra un dato oggettivo.
A dire la verità quando ho cominciato a notarlo non capivo il perché.
A volte capita di rincontrare più di una volta la stessa faccia di sconosciuto che per qualche oscuro motivo ci si è impressa nella mente, ma di solito, dopo la prima volta, l’interesse, per lo più legato al fascino della casualità, svanisce e quella faccia torna ad essere una delle tante gocce nel nostro mare di immagini quotidiane.
Quell’uomo invece è rimasto.
Tanto che mi è capitato di ripensarci anche a casa, nei momenti più svariati, persino mentre m’infilavo nel letto con la mia ragazza.
Il motivo venne a galla fulmineo solo qualche tempo dopo.
Seduto sul cesso, a casa di un amico, sfogliavo una rivista di pesca trovata lì.
Alla fine di un noiosissimo articola sulla pesca d’altura a Cuba c’era una foto di Ernest Hemingway: ritratto ridente in qualche porticciolo caraibico vicino ad un Marlin di due metri.
Era lui il motivo: lo scrittore.
L’uomo sulla metro era identico a Hemingway.
Per quanto ne so, potrebbe anche essere uno scrittore, un feticista della scrittura che ha modificato il suo look per somigliare a uno dei suoi maestri...
L’altra possibilità è da scartare, anche se mi si è piantata in testa e non c’è verso di cacciarla fuori.
Quell’uomo è Ernest Hemingway.
Non saprei come spiegarmi il suo magnetismo altrimenti.
Lui, Hemingway, era famoso per il suo fascino, per le sue storie amorose, per il suo machismo. Nei suoi libri aveva celebrato il mito della virilità e della forza ma era un fragile.
Ho sempre pensato che la causa del suo suicidio fosse stata proprio la perdita di queste caratteristiche che aveva esaltato nei e fatto sue per tutta la vita.
Da adolescente, essendo stato un fan di Hemingway, più volte mi ero immaginato i suoi ultimi momenti di vita.
Una lunga doccia calda con gli occhi chiusi, il bagno e la camera da letto che si riempiono di vapore e lui che esce e va a mettersi davanti un grande specchio per vedere ancora il proprio corpo diventato grasso e grigio, svuotato dalla vitalità di un tempo, il membro flaccido e la barba sempre più bianca che ormai copre quasi tutto il volto.
Quell’ultima visione allo specchio lo aveva fatto decidere a prendere uno dei suoi fucili da caccia, infilarselo in bocca e farsi saltare la testa.

Se il mondo in cui ci muoviamo altro non è che un inferno a cui ci ha destinati una vita dimenticata, allora la metropolitana di Milano è il girone dantesco riservato a Hemingway a cui sono stati ascritti i reati di superbia, vanità e accidia.
Questa triplice condanna capitale non gli ha dato diritto al purgatorio ma l’ha sprofondato qui: con l’odiato aspetto da anziano e il suo magnetismo giovanile.
Desiderato, guardato da donne sempre diverse, eccitate dalla sua aura misteriosa, eppure scontento perché incapace ormai di amarsi, costretto a subire quegli sguardi e quei desideri senza trovarne appagamento per via della malattia insanabile del suo ego, deperito davanti alla resa del suo corpo mortale.
Ovviamente non può essere così.
E’ più probabile che quell’uomo sia il fantasma di Hemingway, ad un’allucinazione non voglio neanche pensarci.
Del resto non sarebbe la prima volta che ne incontro uno.
E di quell’altra occasione sono sicuro, il mio vicino di stanza a Tangeri, era un fantasma.

Dopo l’illuminazione sulla tazza del cesso continuo a fare la mia vita.

Prendo la metro e attraverso il sottosuolo di Milano, esco in strada per fare un pezzo a piedi, dentro a un parco di magnolie che rimane verde lucido anche in autunno, arrivo al lavoro, sogno caffè fumante e sigaretta già dopo un’ora, poi all’ora di chiusura mi ributto in strada, osservo di sfuggita il fiume di gente che si stringe attorno a me prima nel parco, poi sulla banchina della metro immersa nella luce gialla e nella lingua franca pre-babelica di italiani e stranieri che parlano tutti insieme.
Poi nel vagone non faccio altro che aspettare lui.
Passano schiere di modelle e di belle donne comuni che io neanche guardo se non per aspettarmi da un momento all’altro l’entrata di Ernest.
Ho notato che succede spesso quando sale una donna davvero bella.
Sale una signora sulla quarantina.
Sembra uscita da un romanzo di Chandler. E’ una dark lady mora con trench e occhiali scuri, un rossetto di un porpora scuro come l’ interno di un cuore ancora vivo.
Si ferma in piedi davanti a me, altezzosa e sicura, non rivolge lo sguardo a nessuno degli uomini che non appena ha messo piede nel vagone hanno cominciato a puntare gli sguardi su di lei.
Io tengo il suo sguardo per un po’ ma poi lo distolgo come tutti gli altri non appena lei accenna un movimento della testa.
Poi da dietro due imbianchini egiziani arriva lui.
Si appoggia alla sbarra verticale del vagone e inizia a guardarla con degli occhi indefinibili: come di fronte a un cataclisma, ad un incidente irreparabile che distrugge ogni cosa.
Lei si gira e rimane impietrita. Vedo il movimento della sua gola quando ingoia un po’ di saliva e le sue mani da ferme diventare nervose.
Si alza gli occhiali da sole e anche questo gesto semplice è impacciato rispetto alla disinvoltura che aveva fino a due minuti fa.
Il fantasma di Ernest rimane freddo, come se l’emozione di quello sguardo non lo toccasse e lei si irrigidisce ancora di più.
Gira di continuo la testa verso di lui, i muscoli del collo tirati, una leggera smorfia della bocca contratta.
Quando si accorge che siamo alla sua fermata è troppo tardi.
Fa uno scatto goffo verso le porte che le si chiudono in faccia all’ ultimo secondo e il treno riparte all’ istante.
Quando si girà la sua espressione è irriconoscibile, la stanchezza di una giornata di lavoro, gli anni, l’insicurezza celata dalla propria maschera, si sono materializzati in pochi secondi sul suo volto.
Lo spettro non c’è più.
Lei si gira intorno a guardare.
Starà pensando: “Non può essere uscito prima di me..”

lunedì 2 agosto 2010

CALMA



La domenica mattina di questo periodo la Milano Torino è una lingua di fuoco in fermento.
Se il Venerdì o il Sabato sono i giorni dell’esodo, di quelli che vanno via da Milano per qualche settimana, la domenica è il giorno di chi va via per una giornata.
Alle 9 del mattino l’autostrada è già piena, così come i banconi degli autogrill che servono quantità infinite di cornetti e cappucci.
Si attraversa uno dei lati del triangolo industriale.
Ex triangolo.
GE-MI-TO .
A leggerlo adesso quest’acronimo suona beffardo, ingiusto.
Negli anni 60 doveva essere un grido d’esaltazione collettivo.
Su entrambi i lati corre la pianura, i terreni a perdita d’occhio tagliati dalla linea dell’alta velocità sorta a velocità contraria ma sorta.
Si corre verso i fiumi, da una striscia d’asfalto a una d’acqua.
Si va verso il Sesia, l’Adda, il Ticino.
Ogni comitiva conosce un’isola segreta lungo il corso di questi fiumi quasi in secca. Dove la poca acqua fresca e apparentemente pulita ristora gli abitanti della pianura.
Per raggiungerla sacrificano il sonno anche la domenica.
Si alzano alla stessa ora del resto della settimana.
Quando si è in strada si guarda da macchina a macchina.
Basta un attimo per controllare il tipo di vestiario, la faccia, eventuali attrezzi nell’auto dell’altro per capire quali siano i suoi progetti, e se sono simili ai propri, tocca dare una bella accelerata, perché il tipo, potrebbe avere in mente proprio la stessa isola segreta.
E’ l’incubo del traffico, delle code, delle attese, della scomodità che contagia pure un giorno di vacanza.
La medicina è sempre la stessa: la fretta, l’efficienza.
Sbattersi per non avere sbattimenti.
Al massimo alle 10 i ciottoli scoperti dei fiumi in magra sono già arroventati.
Sopra queste distese pietrose sono disposti ombrelloni colorati e seggiole e barbecue fumanti, già a quell’ora del mattino.
Intorno e sotto le loro ristrette brulicano i fuggitivi della domenica.
Le famiglie con fornelli da campo e piscine gonfiabili per i bambini la fanno da padrone.
Comandano loro.
A qualsiasi ora si arrivi loro sono già lì.
Qualcuno di loro era lì alle prime luci dell’alba per montare l’occorrente, così presto da avere anche il tempo di una pennichella prima dell’arrivo del resto della comitiva.
La loro allegrezza, la tenerezza dei giochi con i piccoli stride fortemente con i loro sguardi, con i loro ghigni, che sono ruggiti, quando il vento cambia e porta il fumo verso il loro accampamento o quando qualche ragazzotto indisciplinato manda una pallonata ad una delle donne stese a prendere il sole.
E’ tutto calmo ma di una calma fragile.
Le varie tribù urbane di vacanzieri si scrutano, mandano segnali in codice per delimitare spazi, spazi che non devono essere assolutamente invasi.
Vicino le famiglie ci sono gruppi di ragazzi, operai per lo più: muscolosi, tatuati, con piercing sui capezzoli, sui sopraccigli, sulle lingue.
Sono quelli che iniziano a cucinare per primi, quelli che hanno più alcol di tutti.
Prima di mezzogiorno l’ebbrezza li ha già conquistati.
Un paio di loro inscena una finta rissa ai bordi del fiume con tanto di caduta finale nell’ acqua e proseguimento dello scontro tra schizzi e urla soffocate.
Dalla collinetta pietrosa immersa nell’afa altri li osservano: hanno lo sguardo nascosto da spessi occhiali da sole, il sorriso feroce, come quello di bambini soldato.
Una canna in una mano e la birra in un'altra, mentre un bambinetto di neanche 4 anni gioca pericolosamente vicino i tizzoni nell’ indifferenza del padre e della madre poco più che ventenni.
Ad un’ altro tavolino da picnic un altro gruppetto di ragazzotti gioca a poker, sotto un’ ombrellone delle Heineken.,
Al posto delle fiches hanno piccole quantità di cocaina, divise in minidosi.
Chi perde offre una sniffata.
Le loro donne stanno quasi tutte in gruppo.
Stese al sole oppure sotto un gazebo a parlare e fumare.
Dal tavolo del poker si alza di scatto un uomo più adulto, sui quarantacinque.
Ha il fisco un po’ cadente ma si vede che prima era stato come quei ragazzi.
Ha anche lui dei tatuaggi.
Sembrano fatti negli anni 80, sono di un colore tra il verde e il blu, sbiaditi.
Va verso una ragazza seduta in disparte.
Sembra sud americana dall’ aspetto.
Le si avvicina a passo deciso e poi con dolcezza la invita sotto l’ ombrellone del poker e della cocaina.
Lei lo segue incerta, frastornata.
Indossa un bikini nero e ha gambe lunghe e muscolose.
I ragazzotti sotto l’ombrellone si ghiacciano man mano che l’uomo avanza verso di loro con la ragazza.
Si ferma a fianco dell’ombrellone del poker, su una piccola duna sabbiosa da dove vede tutto il suo accampamento.

- Siete tutti tatuati, siete palestrati, fate i duri a quel cazzo di tavolo e poi…..lasciate in disparte una ragazza così….Siete senza palle…duri e finocchi…Avete fatto le tribù delle donne e degli uomini,non sapete un cazzo…lasciate le vostre donne 2 ore sotto il gazebo e vi guardate i muscoli..Con la vostra razza finisce tutto, tra un po’ non avrete più voglia neanche di scopare!
Ma non vi preoccupate ragazze, a me quella voglia non passa!

Rimane a fissare per un po’ in silenzio tutti gli altri che sono rimasti muti.
Li scruta, li guarda negli occhi ad uno ad uno.
La pelle del suo viso è abbronzata e le rughe intorno agli occhi hanno lasciato delle striature più chiare che gli conferiscono uno sguardo rapace.
Intanto la ragazza sudamericana non sa che fare.
Nessuno la guarda ma ha sensazione che tutto il mondo lo faccia proprio in quell’istante.
Non sa dove mettere le braccia.
Poi l’uomo si gira di nuovo verso di lei la guarda con occhi liquidi, pieni di dolcezza, le mima il gesto di levarsi un cappello inesistente e se ne va prendendo una birra dal tavolo del poker, verso il fiume.

martedì 6 luglio 2010

DESERTI



Anche se siamo parecchio a nord e da molti posti qui in torno si vedono le alpi, siamo circondati da deserti.
Se ne trovano ovunque, in ogni paese e anche in città. Piazze desolate i cui ciottoli diventano ardenti già alle 8 del mattino.
Piazze dove pochi coraggiosi, o incoscienti, boccheggiano puntando il viso contro il sole.
I termometri digitali delle farmacie vanno ben più su dei 30 gradi, sfiorano i 40 e li superano anche.

Le strade si svuotano, vengono avvolte da una calura d’altoforno, da un riverbero che rende tutto bianco e magnetico.
A guardare a lungo lo stesso posto sembra di vedere l’aria ribollire.
A Cinisello Balsamo, in una grande piazza resa infernale dalla temperatura eccessiva, i pochi passanti e gli ancor più rari che si siedono, sotto l’inefficace ombra degli alberi, sembrano sparire nell’aria incendiata.
Le loro figure si disfano e si amalgamano col paesaggio, come in un miraggio sahariano.

Verso le 2, se si tende l’orecchio verso le finestre delle case, lasciate aperte per far entrare un po’ di corrente, si può ascoltare il rosario di telegiornali che non fanno altro che parlare della calura, amplificandola, nella mente degli spettatori, fino a livelli africani.
Ogni tanto così si cede, la mente cede, e crede di essere ai tropici , tanta è l’umidità e il calore immoto che circonda ogni cosa.
Qualcuno dice di sentire le rane, qualcun altro che gli sembra di essere a Bangkok o in Vietnam, altri, posseduti da un qualche spirito beduino o tuareg, escono proprio durante il picco di calore e vagano per le strade vuote, con lo sguardo folle dei profeti, inebetiti dal deserto, fino alle allucinazioni.

La gigantesca provincia di Milano, quell’hinterland operoso che sembra non fermarsi mai, si arresta quasi del tutto. In pochi giorni la folla onnipresente assottiglia le proprie file e quelli che rimangono in giro non sono i più forti ma solo i più sfortunati.
Il loro aspetto non è dei migliori. Il caldo corrompe ogni cosa e lascia segni duraturi: la percentuale di occhiaie aumenta vertiginosamente per le notti insonni e aumenta la violenza a causa dei supplizi degli autobus arroventati, dell’abuso di alcohol di sera e delle notti insonni.
Un circolo al quale qualcuno non riesce a sfuggire.
Le facce dei guidatori sono più disfatte del solito, così come il loro umore, nonostante la elioterapia forzata.

Presto questa desertificazione periodica aumenterà.
Torneranno ad essere lingue roventi e abbandonate le strade, le tangenziali, i parcheggi del centro e quelli dei centri commerciali.

E poi toccherà ai bar, ai parrucchieri, ai piccoli supermercati.
Abbasseranno tutti quanti le saracinesche, scapperanno via da questa situazione lasciando a chi rimane l’ossessione di trovare un posto aperto, dove incontrare qualche altro eremita cittadino, prigioniero anche lui, in cerca di un’oasi.
Con il condizionatore a pieno regime.

venerdì 4 giugno 2010

NOI CHE MILANO NON SIAMO



Noi che Milano non siamo, stiamo come voi sui vagoni della metro.

Alle stesse ore ci muoviamo per la città e alla stessa ora torniamo verso casa sopportando la stessa ressa, lo stesso traffico, la stessa puzza.

Eppure Milano noi non siamo.

Come non siamo mai nessun’altra città che non sia la nostra natale e talvolta neanche quella.
Di volta in volta siamo i negri, i gialli, i talebani, gli extracomunitari, i clandestini, gli stranieri…tutti nomi che ci date voi che tanta difficoltà avete nel pronunciare i nostri.
Siamo quei nomi e quasi sempre nient’altro.
Abbiamo la consistenza dei sogni mattutini, grigioneri pensieri confusi, trattenuti per pochi secondi e subito persi.

I nostri figli crescono qui, a Milano, e qui fanno le cose che fanno i vostri.
Nei vostri condomini, a fianco tutt’al più, ci siamo noi.
Riempiamo le trombe delle scale di odori diversi, di puzze insopportabili a volte.
E voi ci maledite anche per questo.
Parlate della tradizione della cucina italiana, mentre gustate un pezzo di lasagne, e non sospettate che sono mani egiziane, peruviane o srilankesi ad averle preparate.

Siete felici quando dite di essere in una città cosmopolita, ma chi conoscete voi?
Quali culture avete incontrato, da quali avete preso cose che fanno di voi quello che siete?
Noi crediamo nessuna.
Ci tollerate finchè non siamo totalmente noi stessi.
Portiamo le vostre pizze in scatola, siamo operose formiche nei vostri cantieri, nei mattatoi stiamo immersi nel sangue, nelle fogne con la merda fino alle ginocchia e sulle autostrade ci sciogliamo al sole insieme all’asfalto.
E voi che ci vedete, con un misto di compassione e senso di colpa, parlate di quanto siamo instancabili e silenziosi e calmi e tanti altri aggettivi che ricordano la parabola del buon selvaggio.
Quando poi, per riposarci, ce ne andiamo a bere nei parchi o a fare un po’ di baldoria per le piazze, storcete la bocca e preferireste che ce ne stessimo in casa, calmi e in silenzio.
Voi preferite pendolari a cittadini, ma non ci sono mezzi veloci per le nostre città.

Noi che Milano non siamo usciamo tra noi, facciamo le feste di compleanno, il natale, celebriamo il giorno dei morti, l’ Haeg e nonostante sentiate rumori e allegria fuori stagione mai che vi venga in mente di chiedere perché.
Vi risponderemmo e forse vi inviteremmo anche a mangiare.
Ma voi avete paura che a casa dei vicini cinesi vi servano il cane o che dagli arabi qualcuno non si lavi le mani prima di mangiare con esse da un unico grande piatto.
E intanto i vostri quadrupedi vivono meglio della maggior parte degli esseri umani del pianeta e le vostre mani sono sporche quanto le nostre e a volte di più perché anche per essere sporchi la ricchezza aiuta.

Noi che Milano non siamo, statene certi, vogliamo esserlo.
Questa è l’unica cosa di cui siamo sicuri, che non vogliamo cambiare.
Abbiamo deciso di vivere qui.
Come gli antichi nomadi che vagavano fin quando non trovavano un posto favorevole per stanziarsi noi abbiamo scelto questa città e qui resteremo.

lunedì 24 maggio 2010

PER UNA NOTTE INTERNAZIONALE



Milano. Piazza del duomo.
Sotto gli schermi giganti c’è un’umanità neroblu.
La stessa maglietta sopra pelli di vario colore.
Ad incitare l’ Inter si radunano 100.000 persone, in una serata calda, finalmente primaverile dopo un mese di pioggia tropicale.
Come la squadra che gioca ha calciatori provenienti da tutto il mondo, i tifosi formano una babele che parla contemporaneamente spagnolo, hindi, cinese, varie lingue africane e naturalmente italiano.
Si mischiano odori.
Il sudore effettivamente è quello principale, poi vengono quelli del cibo asiatico dentro vaschette argentate, di kebab, di hashish e marijuana, di birra, per metà bevuta e per il resto caduta per gli scossoni della folla.
Le persone però non si mischiano come fanno gli odori, restano ancora in gruppetti etnici: isole monotematiche di un arcipelago creolo che parla con un accento milanese esotico.
Bagnati dalla stessa passione si lambiscono ancora a fatica ma sembra si guardino con occhi diversi.
Un mare nostrum calcistico li identifica.
Ci sono africani con magliette di Stankovic e slavi che indossano quella di Balotelli, si strattonano e si abbracciano quando Milito mette dentro il primo e il secondo gol della serata mandando in estasi tutti quanti e inorgogliendo i sudamericani che sono tra i più numerosi.
Ci sono anche tifosi di altre squadre camuffati da interisti.
Sono venuti da sportivi, senza gufare, per vedere una cosa che non succedeva da 45 anni.
Un anziano grida di essere ambrosiano dal 1949.
Uno juventino confessa sottovoce la sua colpa.
Una coppia di romani è felice di tradire la lupa e di stare in piazza del duomo.
Milano per una notte assomiglia a Roma e a Buenos Aires.
La piazza fa fatica a svuotarsi, la folla continua a rumoreggiare anche dopo il fischio finale, s’incammina verso il parco Sempione e si butta nella fontana del castello.
Non c’è polizia, le stazioni della metro sono prese d’assalto e i controllori non oppongono resistenza quando gruppi di invasati di gioia scavalcano i tornelli e corrono via senza pagare.
Milano latina, mediterranea, vive un’allucinazione collettiva che da un campo di calcio libera in ogni stradina, dal centro splendente di luci alle periferie appena illuminate, scariche di adrenalina e follia.
Via Padova è un enorme bivacco che ha il suo centro perfetto in piazzale Loreto dove le macchine impiegano 20 minuti a fare la rotonda e prendere i vari viali che si ramificano da lì.
Proprio qui qualche mese fa una rissa finita in omicidio aveva fatto puntare il dito e le armi contro le comunità straniere che ci abitano uniformandole sotto l’etichetta di criminali e assassini.
Per una notte sembra tutto tranquillo, come se nessuno avesse orecchie e occhi per notare diversità anziché uguaglianze.
Un paio di ragazzi arabi prendono al volo una bottiglia di birra da una macchina di italiani. Fanno due sorsate a testa e la buttano via, ridono come pazzi.
Per questa sera forse Allah gli perdonerà la trasgressione.
Hanno entrambi una maglietta dell’Inter con il loro nome stampato sulla schiena.
In arabo.

lunedì 17 maggio 2010

SETE


Corso Buenos Aires un pomeriggio di maggio tiepido e grigiastro.
Come certi cieli asiatici che scaricano una perenne umidità.
Stiamo sotto a un gazebo a raccogliere firme per impedire la privatizzazione dell’acqua.
Gente di fretta anche nel giorno dello shopping: rallenta, si avvicina, vuole sapere, capire meglio.
E’ disposta a sottoscrivere ma vuole essere sicura di non mettere il proprio nome per qualcosa che non condivide.
E’ diffidente. Almeno all’inizio.

Quelli che con passo deciso si siedono e tirano fuori il documento sono pochi: sono quelli che seguono il problema, che leggono, ascoltano, vedono..
In una parola si sovrainformano.
Arriva una coppia di coniugi di un paese del sud dove l’acqua è già privata.
Ci parlano degli aumenti repentini, della gente incazzata e tradita.
Si ferma un operaio dell’acquedotto di Milano, un paio di migranti sudamericani che ci ricordano la Bolivia e le guerre dell’acqua.
Arriva un padre di famiglia, molto energico ed esuberante, dichiara di essere di estrema destra, ironizza sul nostro abbigliamento “no-global” e firma anche lui, con rabbia, dicendo che l’acqua non è una questione politica ma di buon senso.
Dopo aver firmato, alcuni ringraziano, alcuni se ne vanno in silenzio, altri ancora chiedono sorridendo se possono fare più di una firma.

La città, nei suoi anfratti è viva, come sempre.
Emerge dal nulla di una strada dello shopping, nella frenesia rallentata di un sabato qualunque che in un'altra occasione sarebbe stato da buttare, uguale ad altri, consumati nel girare le vie del consumo.
Milano a volte ha anche il tempo di rallentare, di indignarsi, di essere stanca e incazzata come tutto il Paese, per mille motivi diversi.

Dare da bere agli assetati.
Basterebbe un mandala che dica queste parole, percepito in tutti i quartieri, tutte le strade, per toccare le corde cattoliche delle anime italiane e bloccare anche solo l’ idea di privatizzare l’acqua.

Dall’altra parte della strada, vicino l’entrata della metro un fioraio ha attaccato un foglio A4 sul suo chiosco, dice :
“Non si danno informazioni”
Per tenere alla larga chi ha sete di sapere.

sabato 15 maggio 2010

PERIFERIA NORD ORE 7



Ci alziamo ogni mattina con lo stomaco sconvolto, il cuore già un po’ accelerato e ci mettiamo in marcia.
Ore 7:00 periferia nord di Milano.
Una coda di automobili rumoreggia di clacson e motore in direzione della città.
Si va a passo d’uomo come ogni giorno.
Oggi ancora di più.
Piove.

La gente sta dentro la propria auto senza sbraitare più di tanto.
Stiamo composti, pacati, seri e nel frattempo ne vedi alcuni pigiare meccanicamente il clacson vomitando bestemmie ma mantenendo la calma.

La fila arranca lentamente lungo la rampa della tangenziale nord, svincolo Cormano.

Alla radio lo citano ogni mattina.
Un ingorgo quotidiano che sommato equivale a qualche anno di vita.

Ogni tanto fa invidia guardare l’altra carreggiata: quella che esce dalla città e corre verso la Brianza.
Un traffico normale, scorrevole, con tutti che sfrecciano come minimo agli 80 e tra al massimo mezz’ ora saranno al lavoro, fuori da quel caos di lamiere e di bestemmie.

Tanto brutto tutto insieme dovrebbe scoraggiare e invece resistiamo.
Andiamo avanti e non appena siamo arrivati a destinazione, di quel traffico rimane solo un racconto sensazionalistico da fare a un collega, giusto per il gusto di lamentarsi, perché alla fine ci siamo abituati, ne abbiamo viste di peggiori, ce ne sono stati di più grandi di ingorghi.
Se ci deprimesse davvero il traffico, Milano sarebbe morta da un pezzo.

Intanto però si sta fermi e rimane l’invidia.
Risalendo la rampa si vede la Comasina.
File di capannoni di aziende e fabbriche da entrambi i lati della strada, autolavaggi a gettoni, mcDrive e i palazzoni di Bruzzano, di Affori, di Paderno Dugnano, colorati di grigio, marrone, piastrellati come si faceva negli anni 60, traslucidi sotto la pioggia.
Stanno fermi anche lì.
Bambini e slanciate ragazze rom passano tra le file di automobili con in mano foto di altri bambini o pezzi di cartone con scritte in italiano scorretto che descrivono la loro condizione di povertà.

Pensare che anni fa da queste parti ci scorazzava Renato Vallanzasca.
E’ giusto una piccola distrazione, un sollievo passeggero nell’ angustia della coda, .
Lui almeno non avrebbe mai scelto l’ora di punta per prendere l’auto.

Non sulla tangenziale nord per lo meno.
 
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