mercoledì 15 settembre 2010

FANTASMI


Prende la metro a non so quale fermata della linea verde.
Non l’ho mai visto salire, mai incontrato sulla banchina.
Me lo ritrovo davanti quasi ogni giorno.
Ad un certo punto appare.
Alzo lo sguardo da un libro o dal cellulare e lo vedo.
Ha sempre lo stesso sguardo concentrato, all’inizio mi sembrava cupo, ma mi sbagliavo.
Dopo un po’ di tempo che lo conosco, se così si può dire, sento che non è un uomo triste. Non ci ho mai parlato ma è così, lo sento.
Credo piuttosto che sia assorto in qualche pensiero che lo porta lontano.
Ha un trench avana che arriva fino a sotto le ginocchia, da ispettore del ‘900 e porta sempre almeno un paio di libri sottobraccio.
Non sono mai riuscito a leggerne i titoli ma le copertine cambiano quasi ogni giorno.
A meno che non sia un esibizionista culturale è uno che legge molto.
Non ce lo vedo a sistemare la sua libreria in funzione dell’ ospite che arriverà ma conosco gente che lo fa o lo faceva.
Non sono il solo a guardarlo.
Spesso mi accorgo che le donne intorno a lui mandano sguardi da dietro il giornale, di striscio, facendo finta di leggere la mappa della metro. L’ho visto fare a cinquantenni con tronchi al posto delle gambe e a donne trentenni nel pieno della loro bellezza. Lui ricambia i loro sguardi con brevi cenni del capo, sorrisi appena accennati, qualche volta al massimo con un’alzata di testa.
Non è un uomo bello.
A parte le banalità sul gusto, mi sembra un dato oggettivo.
A dire la verità quando ho cominciato a notarlo non capivo il perché.
A volte capita di rincontrare più di una volta la stessa faccia di sconosciuto che per qualche oscuro motivo ci si è impressa nella mente, ma di solito, dopo la prima volta, l’interesse, per lo più legato al fascino della casualità, svanisce e quella faccia torna ad essere una delle tante gocce nel nostro mare di immagini quotidiane.
Quell’uomo invece è rimasto.
Tanto che mi è capitato di ripensarci anche a casa, nei momenti più svariati, persino mentre m’infilavo nel letto con la mia ragazza.
Il motivo venne a galla fulmineo solo qualche tempo dopo.
Seduto sul cesso, a casa di un amico, sfogliavo una rivista di pesca trovata lì.
Alla fine di un noiosissimo articola sulla pesca d’altura a Cuba c’era una foto di Ernest Hemingway: ritratto ridente in qualche porticciolo caraibico vicino ad un Marlin di due metri.
Era lui il motivo: lo scrittore.
L’uomo sulla metro era identico a Hemingway.
Per quanto ne so, potrebbe anche essere uno scrittore, un feticista della scrittura che ha modificato il suo look per somigliare a uno dei suoi maestri...
L’altra possibilità è da scartare, anche se mi si è piantata in testa e non c’è verso di cacciarla fuori.
Quell’uomo è Ernest Hemingway.
Non saprei come spiegarmi il suo magnetismo altrimenti.
Lui, Hemingway, era famoso per il suo fascino, per le sue storie amorose, per il suo machismo. Nei suoi libri aveva celebrato il mito della virilità e della forza ma era un fragile.
Ho sempre pensato che la causa del suo suicidio fosse stata proprio la perdita di queste caratteristiche che aveva esaltato nei e fatto sue per tutta la vita.
Da adolescente, essendo stato un fan di Hemingway, più volte mi ero immaginato i suoi ultimi momenti di vita.
Una lunga doccia calda con gli occhi chiusi, il bagno e la camera da letto che si riempiono di vapore e lui che esce e va a mettersi davanti un grande specchio per vedere ancora il proprio corpo diventato grasso e grigio, svuotato dalla vitalità di un tempo, il membro flaccido e la barba sempre più bianca che ormai copre quasi tutto il volto.
Quell’ultima visione allo specchio lo aveva fatto decidere a prendere uno dei suoi fucili da caccia, infilarselo in bocca e farsi saltare la testa.

Se il mondo in cui ci muoviamo altro non è che un inferno a cui ci ha destinati una vita dimenticata, allora la metropolitana di Milano è il girone dantesco riservato a Hemingway a cui sono stati ascritti i reati di superbia, vanità e accidia.
Questa triplice condanna capitale non gli ha dato diritto al purgatorio ma l’ha sprofondato qui: con l’odiato aspetto da anziano e il suo magnetismo giovanile.
Desiderato, guardato da donne sempre diverse, eccitate dalla sua aura misteriosa, eppure scontento perché incapace ormai di amarsi, costretto a subire quegli sguardi e quei desideri senza trovarne appagamento per via della malattia insanabile del suo ego, deperito davanti alla resa del suo corpo mortale.
Ovviamente non può essere così.
E’ più probabile che quell’uomo sia il fantasma di Hemingway, ad un’allucinazione non voglio neanche pensarci.
Del resto non sarebbe la prima volta che ne incontro uno.
E di quell’altra occasione sono sicuro, il mio vicino di stanza a Tangeri, era un fantasma.

Dopo l’illuminazione sulla tazza del cesso continuo a fare la mia vita.

Prendo la metro e attraverso il sottosuolo di Milano, esco in strada per fare un pezzo a piedi, dentro a un parco di magnolie che rimane verde lucido anche in autunno, arrivo al lavoro, sogno caffè fumante e sigaretta già dopo un’ora, poi all’ora di chiusura mi ributto in strada, osservo di sfuggita il fiume di gente che si stringe attorno a me prima nel parco, poi sulla banchina della metro immersa nella luce gialla e nella lingua franca pre-babelica di italiani e stranieri che parlano tutti insieme.
Poi nel vagone non faccio altro che aspettare lui.
Passano schiere di modelle e di belle donne comuni che io neanche guardo se non per aspettarmi da un momento all’altro l’entrata di Ernest.
Ho notato che succede spesso quando sale una donna davvero bella.
Sale una signora sulla quarantina.
Sembra uscita da un romanzo di Chandler. E’ una dark lady mora con trench e occhiali scuri, un rossetto di un porpora scuro come l’ interno di un cuore ancora vivo.
Si ferma in piedi davanti a me, altezzosa e sicura, non rivolge lo sguardo a nessuno degli uomini che non appena ha messo piede nel vagone hanno cominciato a puntare gli sguardi su di lei.
Io tengo il suo sguardo per un po’ ma poi lo distolgo come tutti gli altri non appena lei accenna un movimento della testa.
Poi da dietro due imbianchini egiziani arriva lui.
Si appoggia alla sbarra verticale del vagone e inizia a guardarla con degli occhi indefinibili: come di fronte a un cataclisma, ad un incidente irreparabile che distrugge ogni cosa.
Lei si gira e rimane impietrita. Vedo il movimento della sua gola quando ingoia un po’ di saliva e le sue mani da ferme diventare nervose.
Si alza gli occhiali da sole e anche questo gesto semplice è impacciato rispetto alla disinvoltura che aveva fino a due minuti fa.
Il fantasma di Ernest rimane freddo, come se l’emozione di quello sguardo non lo toccasse e lei si irrigidisce ancora di più.
Gira di continuo la testa verso di lui, i muscoli del collo tirati, una leggera smorfia della bocca contratta.
Quando si accorge che siamo alla sua fermata è troppo tardi.
Fa uno scatto goffo verso le porte che le si chiudono in faccia all’ ultimo secondo e il treno riparte all’ istante.
Quando si girà la sua espressione è irriconoscibile, la stanchezza di una giornata di lavoro, gli anni, l’insicurezza celata dalla propria maschera, si sono materializzati in pochi secondi sul suo volto.
Lo spettro non c’è più.
Lei si gira intorno a guardare.
Starà pensando: “Non può essere uscito prima di me..”

1 commento:

  1. bellissimo, amore! intrigante e per niente scontato, avevo voglia di divorarlo per vedere come andava a finire!e mi sarebbe piaciuto ke fosse + lungo ;)

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